Prima che lo stampo si spezzi

Ho sempre avuto molto cara una pagina del 1945, stralciata dal malinconico racconto “Il ritratto di Melusina”, il primo della raccolta di novelle L’amata alla finestra di Corrado Alvaro. Essa, riferendo d’un ritratto di donna, dichiara come possa stabilirsi un’arcaica forma di imperscrutabile “solidarietà carnale”. Lo scrittore, raccontando della società femminile d’Aspromonte, ricorda con vibrata lucidità: “So che molte donne della mia gente non si sono fatte mai ritrarre; basta presentarsi in una delle nostre strade con una macchina da fotografia perché tutte le donne volgano il capo dalla parte del muro; io ho un solo ritratto di mia madre, quando andò sposa, ed è tutta spaventata di trovarsi davanti all’obiettivo una volta nella sua vita, accanto allo sposo in piedi in atto di proteggerla”. La gestualità raccolta da questa descrizione suggerisce, nella sua pienezza, molto del valore antropologico e psicologico del ritrarre.

Alvaro continua, poi, arricchendo il discorso di maggiore consistenza ideale e sociale: “Dico che anch’io soffro di questo ritegno primordiale: mi sembra di posare per qualche cosa di definitivo, prima che lo stampo della vita si spezzi”. Il grande scrittore calabro, dunque, parlando dello stampo dice della morte. La rappresenta subito nella sua forma estrema e pur necessaria di liberazione. E proprio di “liberazione” si fa cenno, per questa incisiva galleria fotografica di Elsa Mezzano, nello scritto di Gonzalo Alvarez Garcìa così come nel partecipato testo di Nevio Boni. Liberare è, quindi, un trascendere dai volti fotografati; un emulsionare, da questi, quei valori essenziali, quelle sostanze di frammenti umani che, altrimenti, andrebbero dispersi nella vorace dissipazione della esistenza. Volto, corpo, senso e peso dell’ombra costituiscono, allora, altre icone svelate dal greve modello di assuefazione alla maschera della quotidianità, da cui traiamo una linfa rappresa sin dallo statuto pirandelliano per addentrarci, resi ancor più fragili, nei percorsi aspri della psicoanalisi. L’unità organica e spirituale sembra di fatto condensarsi nella vastità raggiungibile del volto. Esso, percorso con chiarezza dalla versione estetica acutamente delineata da Georg Simmel, in quanto “erede del corpo”, è “unità di senso”. Eppure tale “unità”, dalla quale sappiamo in che modo si contrappongono, in virtuoso equilibrio di materia e metafora, le asimmetrie anatomiche, si offre all’attraversamento di quella aristotelica modalità di entelechia (il modo d’essere), suggerita da Sciascia per il ritratto fotografico, trascinando, paradossalmente, ad una sorta di inconoscibilità del sé; conduce ciascuno, infatti, ad essere uno “sconosciuto a se stesso”, quasi monade non più interpretabile. “Trascendere la forma”, nel modo in cui invece ribadisce Carmen Covito, tende a restituire il valo¬re ponderale all’ombra; sommando, però, un’ulteriore incognita alla (ri)conoscibilità. Così Elsa, con la sua intensa e problematica rassegna di ritratti, rilascia, con la perizia e la grazia della sua ‘ritrosa’ femminilità (nel senso percepito da Alvaro): ironici sorrisi d’artista, sembianze ambigue di coreografi e registi, pensosa, se non sbarazzina impertinenza di critici, il vibrare inquieto delle mani di scrittrici e poeti, emozioni di gesti, tensioni di sguardi, radiosa trasparenza di volti fanciulli, che coincidono con lo scenario d’uno stampo vitale dignitosamente pronto, comunque, a frantumarsi. A volte, riecheggiando una lontana poesia di Sandor Weöres (“Forma abbandonata”), la vita, l’effigie del viso possono assumere forme inconsuete, anche di “abiti appesi che avvolsero”, finché non saranno proditoriamente travolti dalla sera.

Aldo Gerbino